Avventura a The Wave
Ci ho messo tre anni a metabolizzare
l’avventura ed ora mi sento pronto per raccontarvela. Era agosto 2010 e avevo
fissato, tra gli altri, otto giorni a Page, in Arizona, con la speranza di
rimediare un permesso per visitare la famosa onda (The Wave, appunto, nella zona
del Coyote Buttes della Paria Canyon –
Vermillion Cliffs Wilderness). La storia dei permessi è quasi un film in
se stesso. Ne danno 10 al giorno via internet e quelli finiscono molti mesi
prima e non sono neanche facili da ottenere. Io ci ho provato ma non ne ho mai
visti di disponibili, sempre tutto prenotato. Poi ce ne sono altri 10 al giorno
che vengono dati ogni giorno per il giorno successivo. La procedura è semplice,
ci si presenta entro le nove del mattino dai ranger, si compila un modulo e, se
ci sono fino a 10 richieste, è fatta, un permesso ciascuno. Io arrivo alle otto
e trenta, all’apertura, e fino alle nove meno due minuti siamo in cinque, una
coppia di spagnoli, io, Natalia (mia moglie) e Luca (mio figlio). Poi il dramma.
Arrivano una famiglia di quattro francesi e un altro gruppo di cinque persone.
Compilano il modulo e pagano. E così siamo in 14 per 10 permessi! Il francese
voleva pagare con carta di credito ma li accettano solo contanti (è scritto pure
sul loro sito) e scatta una diatriba perché non aveva biglietti di piccolo
taglio ma solo 100$ e i ranger non avevano resto. Spero che li caccino via
(biglietti per noi) perché non possono dargli il resto ma non succede. Gli
americani sono per il problem solving, la risoluzione del problema, e così gli
consigliano di arrivare a Kanab (40 miglia), cambiare i soldi e tornare. E così
fa lui.

Per i permessi si deve fare una
estrazione, tipo lotteria. Io non ho mai vinto alle lotterie. Considerate che
sono con moglie e figlio, perciò siamo in tre. Prima estrazione: il gruppo di
cinque. Azz! Seconda estrazione: il gruppo dei quattro francesi. E’ finita, se
anche mi estraggono che faccio, vado da solo? Natalia e Luca non parlano inglese
e poi che faccio, li lascio?
Terzo estratto il numero 1, il mio.
Ovvio, ci voleva la beffa. Penso di rifiutare ma Natalia mi convince (“E’ una
grande occasione che non sai se si ripeterà mai”). Accetto. I ranger mi danno
una targhetta verde per lo zaino, praticamente il permesso da portare con me e
mostrare ai loro colleghi nel caso li incontri e una mappa con delle fotografie
di cosa si vede da vari punti. Mi spiegano per filo e per segno la strada e le
varie caratteristiche geomorfologiche che avrei incontrato e dovuto ricordare
per non sbagliare strada. Non ci sono cartelli, è tutto selvaggio (wilderness,
come dicono qui). La caratteristica principale da ricordare è "the Black Crack"
che è una fessurazione che si vede nella regione del Coyote Buttes. The Wave si
trova direttamente sotto the Black Crack.
Il giorno dopo sarebbe stato quello
dell’avventura sognata fin da quando ho visto la prima foto scattata li. Però
avevo il problema della famiglia. Che fare? Decido che il giorno dopo li avrei
imbarcati su una gita di sei ore sul Lago Powell, fino al Rainbow Bridge
National Monument. Li avrei raccolti al loro ritorno perché, e ne ero convinto,
avrei fatto prima io! Natalia, molto previdentemente, mi dice:”Guarda,
sicuramente hai ragione e andrà come dici tu, però scrivimi su un foglio le
frasi in inglese da usare in caso tu non torni a tempo”. E così iniziai a
scrivere frasi come “My husband got lost” (mio marito si è perso) oppure “We are
staying at the Motel6” (alloggiamo al motel6) e, cosa più preoccupante di tutte
(per me), “We have to call the county sheriff” (dobbiamo chiamare lo sceriffo
della contea). Preoccupante non perché lo sceriffo (il capo della polizia) della
contea sia chissà chi (a proposito, mi trovavo tra le contee di Kane e di
Coconino) o mi turbi il nome sceriffo, ma perché tutto questo presupponeva una
cosa: che mi fossi perso! Era una profezia auto avverante!
Comunque, il giorno dopo li deposito
alle 12.15 al molo per la gita, con i biglietti fatti e la promessa di farmi
trovare lì quella sera alle 19.

Parto con il mio SUV e mi faccio i
50 km per arrivare al parcheggio da cui doveva cominciare la camminata (Wire
Pass Trailhead), sette chilometri ad andare e sette a tornare. In effetti non è
molto vicino e la strada, la House Rock
Valley Road, è sterrata. Devo
anche attraversare un piccolo ruscello che è stato creato dalle piogge dei
giorni precedenti. Qui, quando piove, si riempiono tutti i wash della zona, ed è
molto pericoloso. Il wash è il letto asciutto di un fiume, asciutto d’estate ma
dopo una forte pioggia può essere invaso dalle acque. Tante persone sono morte
per questo, sorprese da un flash flood (inondazione improvvisa) e senza alcuna
possibilità di mettersi in salvo. Che brutti pensieri mentre si cammina.
Pensiamo ad altro. D’altronde, se piove, la strada che dalla US89 porta
all’inizio del sentiero diventa impassabile, come ricordano tanti cartelli. E se
non è la strada, sono i tanti wash che attraversa che, riempiendosi d’acqua,
diventano problematici o impossibili da guadare.
Arrivo verso le 13.30. Avrei
preferito arrivare prima ma dovevo sistemare la famiglia.
Parcheggio il SUV nell’apposito
spazio sterrato e vado in uno dei bagni chimici presenti in loco. Mi carico lo
zaino fotografico, il treppiede e qualche cibaria e molta acqua sulle spalle. Mi
avvio, attraverso la strada e scendo nel canalone. Dopo una decina di minuti
incontro i francesi del giorno prima che mi chiedono:”Hai trovato il posto?”,
evidentemente pensando che fossi di ritorno. Ed io, bastardo:”Si. E voi?”. Il
capofamiglia risponde candidamente:”Noi no”. Evvai, quattro permessi sprecati.
Potevo portare i miei con me e partire alle sette del mattino, invece ... altri
cinque minuti e, sulla destra, vedo un piccolo sentiero che esce dal wash ed un
minuscolo cartello che mi indica la direzione. Risalgo il bordo e comincio a
percorrere un tratto sabbioso, circa un chilometro, fino ad un altro wash,
questo non completamente asciutto, anzi decisamente fangoso. Mentre lo
attraverso e sto risalendo dall’altra parte, incontro un gruppo di quattro
persone di ritorno da The Wave. Mi dicono che c’è acqua ed è un peccato ma io
mica torno indietro. Poi mi chiedono come mai da solo (ma avrò mica l’aria di
uno che ha bisogno della badante?) e dopo un po’ la classica domanda “Da dove
vieni?”. Quando scoprono che sono italiano rimangono di stucco, anzi uno ci
rimane proprio male (comincia a smadonnare, chissà perché) perché non aveva
capito che fossi italiano anzi pensava fossi un americano della east coast. Un
bel complimento per il mio inglese! O forse l’orecchio del tizio non era ben
allenato agli accenti. Continuo imperterrito e segno vari waypoint sul mio gps
trekker (mi ero portato un navigatore gps da trekking per tracciare meglio la
strada). Ancora non lo so ma mi saranno utili in seguito. Ora inizia una parte
rocciosa del percorso, con salite e discese sui fianchi di varie montagne, o
meglio, butte, quelle tipiche montagnette tronco coniche fatte di arenaria
Navajo. E’ un percorso da non fare quando piove, vuoi perché si riempiono tutti
i wash e c’è pericolo di flash flood, vuoi perché le rocce diventano scivolose.

Prima di arrivare c’è da
attraversare un altro wash. Attenti sempre al fango, è veramente fastidioso.
Alla fine si sale su un butte e si
arriva a The Wave. Non è un’area molto grande, sarà grande il doppio di un campo
di calcio, ma è un vero spettacolo della natura, uno di quei luoghi dello
spirito che sono da vedere, che ti riempiono il cuore e ti accompagnano nel
corso della vita. Dicono che sia ancora più splendida con il cielo coperto. Io
ho trovato una giornata soleggiata e non posso esprimere giudizi. C’era pure
l’acqua che mi ha impedito di accedere ad altri posti lì intorno, ma non mi
importa. E’ stato un momento spettacolare, magnifico, meraviglioso, stupendo.
Andateci quando volete, qualunque momento della giornata vi offrirà una visione
diversa ma sempre bella. Io sono arrivato verso le 15.30.
Ero solo. Completamente solo. The
Wave era tutta per me. Il caldo? E chi lo sentiva? E poi stavo bevendo
regolarmente. Da queste parti dovete bere spesso, anche se non avete sete perché
l’umidità dell’aria è bassa, circa 30/35% e porta via i liquidi dal corpo senza
che ve ne accorgiate. Stare esposti a questo clima per cinque o sei ore senza
bere può portare alla morte.
Comincio a scattare e mi godo il
momento che dura comunque troppo poco, circa una mezzora. D’altronde fa buio
presto, alle 19 più o meno (l’Arizona non segue l’ora legale) e devo andare a
recuperare la famiglia. Perciò, verso le quattro, mi avvio sulla strada del
ritorno, convinto di arrivare all’auto alle sei. Un paio d’ore sono più che
sufficienti per il tragitto.
Però, forse per la troppa adrenalina
di aver soddisfatto un mio desiderio, quello di vedere The Wave, torno indietro
“a memoria”, trascurando il gps e i suoi waypoint. Sbaglio strada due o tre
volte e, verso le 17.30, le gambe non mi reggono più. Troppo peso sulle spalle
(circa 30 kg) e troppo strada in salita e discesa avevano richiesto uno sforzo
troppo grande per me che ero pure in sovrappeso all’epoca.

Sono caduto nella sabbia senza
riuscire a rialzarmi. Ho capito che non avrei potuto continuare, che non sarei
tornato a Page e non avrei rivisto la mia famiglia. Ma subito ho aggiunto:”Per
oggi!”. Non avevo certo intenzione di morire lì. Mentre faceva buio pensavo a
Natalia e Luca (nemmeno 11 anni all’epoca) che mi aspettavano e poi che
mostravano a qualcuno i vari bigliettini. E il cuore mi si stringeva.
Mi preparavo per la notte.
Non avevo cibo.
Non avevo coperte.
Ho identificato un posto vicino ad
una roccia a cui mi sono appoggiato, sdraiandomi, e mi sono coperto con un
asciugamano che avevo portato per il sudore, non certo per farmi da lenzuolo. Mi
avrebbe aiutato a ripararmi dal vento che nel frattempo si era alzato. Fa freddo
nel deserto di notte, anche d’estate.
Mi sono coricato sotto le stelle.
Che spettacolo magnifico. La notte era veramente buia e le stelle si potevamo
contare una ad una. Non ho mai visto un cielo così stellato. Nonostante tutto mi
son addormentato serenamente, sapendo che la mattina dopo avrei fatto tutto
quanto possibile per tornare. Solo durante la notte ho avuto una preoccupazione.
Mi sono svegliato sentendo un respiro di un animale, probabilmente grande come
un cane. Però si è allontanato. Evidentemente facevo più paura io all’animale.
Chissà magari era un coyote. La cosa particolare è che non ho avuto alcuna paura
La mattina il sole mi ha svegliato
intorno alle cinque. Le gambe, dopo
una notte di riposo stavano un po’ meglio anche se sapevo che avrei pagato lo
sforzo nei giorni successivi. Appena in piedi, ho bevuto un po’ d’acqua. Me ne
rimaneva solo un litro scarso, un po’ pochino se non trovavo subito la strada.
Ma stavolta il cervello era connesso.
Ho acceso il gps e ho seguito le
indicazioni fino al primo waypoint. Ero fuori strada di una cinquantina di metri
soltanto e avevo girato in tondo come un calabrone impazzito stancandomi e
basta!

Parto ben carico e, waypoint dopo
waypoint e sorso d’acqua dopo sorso d’acqua, arrivo al primo wash, quello vicino
al parcheggi. Le lacrime mi sono uscite dagli occhi. Ce l’avevo fatta, mancavano
giusto una cinquantina di chilometri, da fare in auto, però, e poi avrei rivisto
i miei cari. Le forze mi ritornano, il passo accelera e dopo un’altra decina di
minuti, arrivo alla mia auto. La apro, apro il cofano e tiro fuori un altro
gallone (3,8 litri) d’acqua. Ne avevo due, tenuti nel cofano in previsione del
ritorno. L’acqua è fresca mentre mi scorre nella gola. Bevo a volontà, quasi due
litri d’acqua. Non pensavo di averne così bisogno. Sono tutto infangato e
insabbiato, dopo una notte all’aperto. Salgo in macchina e mi avvio, i muscoli
mi fanno un male cane e non vi dico gambe e piedi. Dopo un’ora arrivo al mio
motel e vedo Luca alla finestra. Mi stava aspettando e forse non aveva nemmeno
dormito la notte! Lo vedo precipitarsi giù per le scale e corrermi incontro.
Scendo dalla macchina con grande fatica ma non sento fatica o dolore quando lo
prendo in braccio e lo stringo forte. Dietro di lui, Natalia. Grandi feste,
baci, abbracci. Poi mi raccontano l’avventura, che hanno contatto lo sceriffo
della contea, il consolato italiano a Los Angeles e che se la sono cavata grazie
all’aiuto di una coppia italiana conosciuta sul posto (Cristina Cervi e il
marito, grazie di cuore. Siete sempre nei nostri pensieri). Mi confermano che
non hanno chiuso occhio la notte. Poi giù telefonate per avvertire tutti e
tranquillizzare, quindi un bel bagno. E lì mi travolgono i dolori muscolari.
Dopo il bagno caldo mi sento quasi nuovo (beh, forse meno usato) e ho voglia di
mangiare. Sono quasi 24 ore che non metto nulla nello stomaco. Ci dirigiamo
verso il Danny’s più vicino e lì mi sparo un classico breakfast americano, a
base di uova strapazzate. Mi devo sorbire tutte le ramanzine della moglie e del
figlio ma sono ben poca cosa in confronto al piacere di essere tornato ma
soprattutto di essere stato a The Wave.

Nei giorni successivi non riuscirò
quasi a camminare per i dolori muscolari. Ho delle foto fatte da Natalia sul
Grand Canyon dove si legge la sofferenza sul mio volto mentre cammino. Ma resto
convinto che ne sia valsa la pena e mi piacerebbe tornare a The Wave.
Negli anni a venire mia moglie mi
rimprovererà spesso di questo episodio ed io le risponderò sempre che se
venivano con me sarebbe stato meglio. E penso a The Wave, le striature, i
colori, il buio e le stelle. Un posto dell’anima.
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©2013 Aristide Torrelli