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Che cosa è una immagine Fine Art?


Quando mi chiedono, vedendo le mie foto, “Elabori le immagini?” oppure “Questi colori sono reali?” la mia risposta è “Certo”. D’altronde dovrei chiedere loro:”Ma se questo fosse un dipinto, chiedereste al pittore se i colori sono reali?”. O forse ci sarebbe l’assunzione del fatto che il pittore interpreta la scena davanti ai suoi occhi e sceglie i colori che contribuiscono alla sua visione artistica? Ma allora il fotografo è meno libero del pittore nell’esprimere i suoi sentimenti mediante il suo strumento?

C’è tanto da dire su cosa sia una foto fine art. Una foto fine art è creata per motivi artistici e lo strumento utilizzato è solo il tramite. Ciò che rende arte una foto è l’intento del fotografo, non l’immagine reale.

Di solito rispondo anche che ci vogliono tante ore di lavoro, distribuite su un periodo di mesi per ottenere quel risultato. Una foto scattata e portata subito al laboratorio ci da una stampa fine art? Metterci meno tempo di un pittore a creare un’immagine ci da il diritto di chiamarla fine art?

A proposito: la traduzione italiana di fine art è belle arti, ciò ciò che riguarda le arti visive da noi considerate classiche.

 

 

Luce, Visione e Tecnica

 

Sapete bene che la mia filosofia si basa su questi tre elementi. Lasciando da parte la tecnica, vediamo come contano gli altri due nella creazione di una immagine fine art.

 

 

All’inizio, la luce

 

La grande fotografia di paesaggio inizia con una grande luce. Bisogna alzarsi molto prima dell’alba ed andare a dormire molto dopo il tramonto per avere la luce migliore. Ansel Adams (http://www.anseladams.com) e Galen Rowell (http://mountainlightphotography.com) parlavano solo di luce.

 

 

La visione artistica

 

La luce è l’inizio ma il fotografo comunica i sentimenti che ha provato guardando il soggetto davanti ai suoi occhi, il modo in cui lo ha previsualizzato, cosa lo ha fatto fermare a guardare e fotografare. Insomma, il fotografo è un artista. Eppure a questo artista è richiesto di rappresentare la realtà in un modo più reale di un pittore e questo deriva dalla capacità del fotografo di fabbricare totalmente una scena. In digitale possiamo creare immagini di una realtà che non esiste e questo, secondo me giustamente, sconcerta. Guardate questa immagine che fa parte di quelle fornite con WebShots, un software gratuito che permette una gestione di sfondi per pc partendo da immagini scaricate dal loro sito.

 

 

                                                                                                                   



Si chiama “Grand Teton and Wildflowers, Wyoming”. Io ho fotografato la scorsa estate in quello stesso posto (è Oxbow Bend nel Grand Teton) e vi posso garantire che non ci sono fiori, selvatici o meno, in quel posto. Inoltre, i fiori della foto sembrano presi da un giardino ben curato, non da un posto sperduto tra le montagne. Per ultimo posso dire che, nell’ecosistema del Grand Teton (e di Yellowstone) non ho visto alcuno di quei fiori. E’ fine art questa? Per me sicuramente no.

Con questi, e più eclatanti esempi, è chiara la domanda che le persone pongono: “Ma la foto è reale o no?”. E questo ha un impatto sulla libertà artistica che il fotografo ha rispetto al pittore (perché se la immagine sopra fosse stata dipinta nessuno avrebbe obiettato).

Galen Rowell (http://mountainlightphotography.com) non toccava nulla in una scena, al limite spostava una foglia (la spostava, non la spezzava) e poi la rimetteva a posto. E questo non c’entra con il digitale o la pellicola. Galen è morto (11 agosto 2002) prima della rivoluzione digitale ma questo non avrebbe cambiato nulla. Lui amava il pianeta  e non avrebbe spostato (fisicamente o digitalmente) una pietra per nessun motivo al mondo. Piuttosto non avrebbe fotografato.

Alain Briot (http://beautiful-landscape.com) invece dice “Le mie foto non sono realistiche ma sono credibili”. Egli, cioè, si riserva il diritto di esprimere i suoi sentimenti, la sua visione, senza sentirsi costretto ad una rappresentazione descrittiva, realistica, della scena. Guardate le sue foto sul suo sito e sarete concordi con me nel definire credibile la sua visione.

 

 

Che cosa è reale?

 

Questo è interessante. Una macchina fotografica può catturare una descrizione realistica di una scena? Per quanto possa sembrare strano, la risposta è un bel no, assolutamente no. Da ingegnere posso dirvi che si potrebbe pensare di prendere un bel gruppo di scienziati che si mettono a misurare l’intensità luminosa di ogni elemento della scena, le lunghezze d’onda (colori) e ogni cosa ipotizzabile. Presi tutti questi numeri, avremmo una rappresentazione reale? Forse, ma non quello che vediamo con i nostri occhi.

Gli occhi sono uno strumento incredibile, peccato che siano anche tutti diversi tra gli individui. E lasciamo fuori i ciechi o i daltonici o non so chi altri. Abbiamo comunque una serie di difetti più o meno piccoli ma per ognuno di noi i nostri occhi sono lo strumento principe per vedere la realtà. Attaccato agli occhi c’è poi il cervello che interpreta quanto visto secondo l’esperienza di ognuno di noi. Se in un giorno di sole guardate un oggetto in ombra (si chiama ombra scoperta, per gli esperti di luce) non vi accorgete di una dominante blu (la luce non viene dal sole ma è riflessa dal cielo blu) perché il cervello corregge. Qual’è la realtà?

Qualunque essa sia, è distorta dalla macchina fotografica (pellicola o digitale che sia). La macchina reagisce agli stimoli luminosi della scena in modo diverso dai nostri occhi, oltretutto “aiutati” dal cervello. Come fa?

Ci sono diverse componenti in questa distorsione: l’obiettivo e l’elemento che registra l’immagine (pellicola o sensore). Gli obiettivi hanno una serie di limiti(qualcuno li chiama difetti) quali ad esempio che possono avere una distorsione (barilotto o cuscinetto), una vignettatura, una focheggiatura imprecisa (qui è più un discorso di autofocus o di mano/occhio), aberrazione cromatica laterale, aberrazione cromatica assiale, una dominante propria delle lenti dell’obiettivo ed altro. I fotografi seri/danarosi (scegliete il vocabolo che ritenete più opportuno) spendono un sacco di soldi per avere obiettivi che minimizzano questi difetti. Attenzione, minimizzano non annullano. Annullare è quasi impossibile e comunque non sempre necessario. Ad esempio, la aberrazione cromatica laterale, che si manifesta con un “purple fringing”, un bordo rosso/blu nelle zone ad alto contrasto (rami di alberi su cielo luminoso, ad esempio), si può eliminare via software in fase di post produzione.

Anche l’elemento che registra l’immagine distorce. La pellicola viene preparata per rispondere allo spettro della luce diurna. Se la usiamo all’interno (luci al tungsteno) abbiamo una forte dominante gialla/arancio. E’ il motivo per cui i tramonti vengono “belli caldi”. Se abbiamo una scena ad elevata gamma dinamica (differenza di luminosità tra le zone chiare e quelle scure), né la pellicola né il sensore riusciranno a registrare tutti i particolari. Secondo come esporrete o avrete le ombre chiuse e le luci bene esposte o il contrario.. I nostri occhi non hanno questo problema. Vi è mai capitati di dire “Questa scena la vedo sovresposta?”.

Alcuni fotografi dicono a tutti che le loro foto non sono alterate (vedi, ad esempio, Gianni Berengo Gardin). La cosa mi fa sorridere. Ansel Adams non mi risulta abbia mai detto una cosa del genere eppure previsualizzava la scena come sarebbe venuta in stampa dopo aver sviluppato la pellicola e stampato come prevedeva lui. Eppure tanti dicono di non alterare le foto. Ma allora perché usano pellicole tipo la Velvia che satura i colori di una scena ed aggiunge contrasto? Provate a confrontare una diapositiva con il paesaggio originale e ditemi se sono uguali!

E tutti i filtri utilizzati? Polarizzatore, a densità neutra graduale, neutro, riscaldante o raffreddante (i vari Wratten 81), con colorazione graduale e così via.  Insomma, tra filtri, pellicole/sensore e caratteristiche dell’obiettivo mi venite ancora a dire che non alterate la realtà?

Comunque, è male alterare? Per me no, i fotografi bravi hanno una visione meravigliosa del mondo e riescono a catturarlo in un modo fantastico. E questi mi basta anche se fanno qualche manipolazione in camera oscura, quando usano l’ingranditore. Le stampe a colori vengono corrette come bilanciamento ed esposizione, si schermano alcune zone dell’immagine e se ne bruciano altre. Tutte cose necessarie per far diventare capolavoro un buono scatto. Ma è manipolazione anche se sono pratiche comuni di camera oscura.

Il fotografo digitale ha qualche vantaggio. Deve sempre fare bene il compito sul campo, in ripresa, ma non usa i filtri colorati e non cambia il sensore per avere più saturazione. Tante cose riesce a farle in postproduzione. Qual è la differenza con il fotografo “analogico”? Se questi non cattura la sua visione sulla pellicola in fase di ripresa, non potrà farlo dopo.

 


Solo l’arte conta

 

Non guardiamo la diatriba tra pellicola e digitale, conta solo l’arte e la forza con cui l’artista esprima la sua visione. Il problema è nel nostro intimo, troviamo più facile disquisire di tecnica che di contenuto artistico. Io non ho mai sentito due pittori discutere delle marche dei loro pennelli ma di luce e tecnica espressiva si.

Non è il mezzo che conta ma il risultato. Se vedo una bella foto non mi chiedo come sia stata fatta, mi interrogo sul suo messaggio, su quello che mi dice. Ovviamente, poiché la risposta agli stimoli artistici è personale, ognuno di noi risponderà a suo modo.

 

 

E io?

 

Io abbraccio il mondo digitale nella sua interezza e la creatività che consente. Lavorerò le mie immagini per esprimere le mie sensazioni, la mia visione. Non aggiungerà mai elementi estranei (vedi la foto sopra) ma, se lo riterrò necessario, toglierò dei piccoli elementi di disturbo che tolgono valore alla composizione. Voglio produrre delle cose belle che diano sensazioni rilassanti in un mondo frenetico.

 

Alcuni esempio di bellissime immagini

Joseph Holmes produce le sue immagini componendo più foto, aumentando così la risoluzione in ripresa.

http://www.josephholmes.com

Charles Cramer usa la luce per guidare l’occhio dello spettatore. Lui chiama questo metodo “Comporre con la luce”

 http://www.charlescramer.com.)

In ultimo, ma non per ultimo, il mio mito, Alain Briot. Non vi dico nulla, andate a guardare.

http://www.beautiful-landscape.com

 


©2008 Aristide Torrelli