Il sensore
delle reflex digitali
Abbiamo visto nel tempo l’evoluzione del sensore
delle fotocamere digitale, passato per tanti miglioramenti, non ultimo il
“rovesciamento” del sensore. Andiamo a guardarlo (il sensore, il
rovesciamento lo abbiamo già visto
qui) un po’ più in
dettaglio.
Il sensore delle reflex digitali è composto dai
milioni di fotodiodi che trasformano l'energia luminosa che li colpisce in
un flusso elettrico. Un aspetto molto importante di un sensore è, perciò, la
sua capacità di generare elettroni buoni per l’immagine (tanti) e elettroni
rumorosi (pochi), ovvero il rapporto tra il segnale ed il rumore (S/N).
Un aspetto importante a questo proposito è che la
dimensione del fotodiodo è fondamentale. A tale proposito andate a guardare
questo mio articolo.
Un altro aspetto, più intuitivo, è che se aumento
la luce che arriva sul sensore, questo produce più elettroni.Un altro aspetto, più intuitivo, è che se aumento
la luce che arriva sul sensore, questo produce più elettroni.
Un modo per fare questo è stato quello di
“rovesciare” il sensore (vedi
qui). Un altro modo è con l’utilizzo
di microlenti che concentrano la luce sul fotodiodo. Chiariamo subito un
punto: qualche anno fa ho letto su un Tutti Fotografi che le lenti sul
sensore migliorano l’efficienza quantica (vi spiego dopo cos’è). Le
microlenti servono a catturare più luce e indirizzarla sul sensore e
NON
migliorano l’efficienza quantica (che è una proprietà del materiale
fotosensibile) checché ne dica Tutti Fotografi.
La tecnologia utilizzata prevede la copertura del
sensore con queste microlenti per catturare e indirizzare la luce sulla
superficie di ogni singolo fotodiodo componente il sensore, senza che venga
dispersa nelle zone occupate dall'elettronica integrata, ovviamente non
sensibili.

Tra una lente e quella vicina ci possono essere
delle zone non utilizzate. Parte della luce che attraversa l'obiettivo e
arriva al sensore non è sfruttata per generare l’immagine, è persa..

La tecnologia gapless (senza spazi) permette di
trasferire ai fotodiodi tutta la luce che entra.
Ma la ricerca nel campo dei sensori è continua e
Sony, una dei leader insieme a Canon, ha presentato da alcuni anni
un’ulteriore evoluzione che prevede l'utilizzo di un secondo strato di
microlenti, più efficienti nel convogliare la radiazione luminosa verso la
parte sensibile dei pixel.nel convogliare la radiazione luminosa verso la
parte sensibile dei pixel.

Stiamo parlando di sensori piccoli (guardate il
pixel size, la dimensione dei pixel), dove è più utile e necessario
l’incremento della luce catturata e il suo indirizzamento verso i fotodiodi
però nulla vieta il salto verso sensori più grandi.
Ora, tra rovesciamento, microlenti e software di
elaborazione, stiamo trattando la luce nel modo migliore possibile. Ma non
abbiamo ancora visto il componente principale, il sensore, composto da
milioni di fotodiodi (elementi sensibili alla luce). Partiamo allora dal
fotodiodo tralasciando le considerazioni dovute alla dimensione perché
affrontate in precedenza (vedi articolo).
Il fotodiodo
E’ un tipo di diodo che funziona come sensore
ottico in grado di riconoscere una determinata lunghezza d'onda e di
trasformarla in una corrente elettrica o, come direbbe uno bravo, un segnale
elettrico di corrente.
Ora, se non siete ingegneri elettronici o
diplomati in elettronica, siete autorizzati a saltare la parte seguente. Di
tutto il capitolo vi basta il primo paragrafo, quello che avete appena
letto. Gli ingegneri e i periti elettronici devono leggere tutto!
Un fotodiodo è caratterizzato da una giunzione
p-n drogata asimmetricamente. La zona p, cioè la zona drogata con Na
accettori è molto più drogata rispetto alla zona n, zona caratterizzata
dalla presenza di atomi Nd donatori. La zona p, disposta molto
vicino alla struttura esterna del fotodiodo è a sua volta rivestita da uno
strato antiriflesso e corredata da due elettrodi. Sopra lo strato
antiriflesso è in genere inserita la microlente di cui abbiamo parlato
sopra.
Il fotodiodo opera correttamente se
utilizzato in polarizzazione inversa, e cioè se la tensione ai propri
terminali si presenta più alta nella zona n che nella zona p.
In questo caso, il campo elettrico presente in tutti i dispositivi a
giunzione tenderà ad aumentare d’intensità favorendo la creazione di una
zona di svuotamento. Nel momento in cui un fotone di frequenza v (si tenga
sempre presente la doppia natura, corpuscolare/ondulatoria, della luce)
incide sulla superficie del fotodiodo, l'energia, data dall'equazione
Eg = hν
(h è la costante di
Planck, v dipende dal materiale)
se sarà
maggiore dell’ampiezza di banda proibita (band gap) tra
banda di valenza e banda di conduzione del dispositivo, causerà la creazione
di una coppia elettrone-lacuna libera (EHP,
eccitoni, coppie di elettroni e lacune legati tra loro mediante la forza di
Coulomb). Una EHP
libera consiste in un elettrone eccitato in banda di conduzione ed una
lacuna in banda di valenza. Una volta generata la coppia, essa sarà soggetta
al campo elettrico generato dalla differenza di potenziale applicata.
L'elettrone sarà quindi spontaneamente attratto verso la zona n mentre la
lacuna verso la zona p. A causa della presenza di una coppia
elettrone-lacuna nella zona svuotata, la regione non sarà più neutra. Non
essendo più neutra, il dispositivo compenserà questa situazione con un
movimento di elettroni-lacune prelevati dal generatore di polarizzazione,
causando così la presenza di una fotocorrente inversa che rappresenta il
segnale elettrico prodotto dall'incidenza del fotone.Il materiale con cui è
prodotto il fotodiodo è di importanza
critica per il suo funzionamento. Dal materiale dipende l'energia minima che
il fotone dovrà possedere per
poter generare la
fotocorrente, visto che la costante di Planck è, appunto, una costante!
Parametri di
efficienza
Nel valutare
i fotodiodi si utilizzano sempre due parametri di efficienza per valutare e
compararne le prestazioni: l'efficienza
quantica e la responsività.
L’efficienza quantica è una proprietà
del materiale fotosensibile (capito
TF?) ed è il numero di elettroni emessi per fotone incidente. Ha valori
inferiori ad 1.
Per valutare l’efficienza quantica bisogna prendere in considerazione le
perdite dovute ad assorbimento, riflessione e trasmissione. La
perdita per assorbimento è dovuta alle zone non sensibili ai fotoni, che si
trovano sopra e dentro i fotodiodi.
Le perdite per riflessione sono dovute alle
proprietà fisiche del materiale. Se usiamo il silicio, ad esempio, possiamo
misurare perdite del 70% intorno ai 250 nm di lunghezza d’onda della
luce incidente.
Le perdite per trasmissione si
verificano quando i fotoni
passano attraverso la superficie sensibile senza generare degli eccitoni.
Fanno cilecca, insomma.
Andiamo a sparare qualche formula. Non è necessario che le leggiate e le
impariate per il prosieguo dell’articolo,
a meno che non siate ingegneri!
Efficienza
quantica: L'efficienza quantica
è il numero di EHP (electron hole pairs, eccitoni, coppie di elettroni e
lacune legati tra loro mediante la forza di Coulomb) generate per ogni
fotone incidente.
L'equazione che rappresenta questo parametro è:
dove Iph è
la fotocorrente generata, e è
la carica dell'elettrone, h la
costante di Planck, ν è
la frequenza della luce incidente, Po è
la potenza ottica incidente (fotoni/s).
Andiamola a riscrivere in un modo più comprensibile (!):

Ora, hv
è l’energia di banda proibita, Eg, l’energia minima
necessaria a creare un eccitone;
è
la corrente generata per fotone ricevuto ed e è
la carica dell’elettrone.
Si vede benissimo che l’efficienza
quantica dipende dal materiale (parametro Eg) perciò le
microlenti non c’entrano, con buona pace di Tutti Fotografi. Che dite, che
con le microlenti posso raddoppiare i fotoni che arrivano sul fotodiodo?
Vero, così raddoppio Po. Ma raddoppio
anche Iph (il
fotodiodo è un dispositivo lineare) e quindi il rapporto
rimane
costante, con lo stesso valore precedente. L’efficienza quantica non cambia
di valore!
Il parametro
,
la corrente generata per fotone ricevuto, si chiama responsività (R).
Perciò, dalla
formula di
, otteniamo:

Ma la
frequenza ν si
può scrivere come:

con c velocità
della luce e λ lunghezza
d'onda della luce incidente. Perciò:

Se andiamo a calcolare le costanti (c,
e, h) otteniamo la relazione tra R,
e λ:
R = 0,807
λ
dove si
vede la dipendenza della responsività dalla lunghezza d'onda in micron del
segnale luminoso incidente.
Qui finisce la parte per gli ingegneri.
Il diagramma
della efficienza quantica
Abbiamo detto che la responsività, e
quindi l’efficienza quantica, dipendono dalla lunghezza d’onda della luce
incidente. Diventa allora importante il diagramma di efficienza quantica.
Il diagramma di efficienza quantica si
applica a tutti i tipi di sensori e rappresenta la sensibilità del sensore
in questione rispetto alle diverse frequenze dello spettro luminoso.
Sull’asse delle acisse possiamo trovare
la lunghezza d’onda (o la frequenza) e sull’asse delle ordinate l’efficienza
quantica del sensore. L’occhio umano ha un diagramma di efficienza quantica
ben definito ed un buon sensore dovrebbe preoccuparsi di avere una
efficienza quantica simile.
Nei sensori CCD/CMOS, l’efficienza
quantica è leggermente traslata verso il colore rosso (l’occhio umano ha la
massima efficienza intorno a frequenze luminose che rappresentano il colore
verde) e presenta una sensibilità anche per quanto riguarda lo spettro
dell’infrarosso vicino.
Per riportare il comportamento del
sensore rispetto a quello dell’occhio umano, si da un maggiore peso al
colore verde dei pixel, mettendone due per ogni rosso e blu. La componente
dell’infrarosso si rimuove con l’apposito filtro posto davanti al sensore.
In un sensore come quello della figura seguente, si vedono i vari
componenti:il filtro anti infrarossi, il filtro anti aliasing, le
microlenti, il filtro a matrice di Bayer, i fotodiodi.

La necessità di dare maggior peso al
verde è il motivo per cui un filtro a matrice Bayer classica si basa su
gruppi di 4 fotodiodi
per ogni pixel che presentano una sequenza di colori che prevede un rosso,
un blu e due verdi come questo

Questo,
invece, è stato ideato da Sony per alcune delle sue fotocamere, soprattutto
di tipo bridge, di cui la più celebre è senz’altro la DSC
F828, e sostituisce un verde
“tradizionale” con un verde smeraldo; questo pattern di tipo RGBE (red,
green, blu, emerald) a detta di Sony dovrebbe servire a riprodurre i colori
in maniera più fedele a quella che è la visione dell’occhio umano. Non ho
potuto verificare quanto ci sia di vero in questa affermazione,
non avendo mai posseduto una F828. Pare, però, che nelle reflex
Sony, soprattutto in quelle di fascia alta, il sensore adottato sia un
comune CMOS di tipo RGB e non di questo tipo. E se non lo usano loro…
Questo filtro, di
tipo CYYM (ciano, yellow*2, magenta) era usato su alcune fotocamere Kodak
Questo
invece, di tipo CYGM (ciano, yellow, green, magenta), è maggiormente usato
sulle videocamere.
Caratteristica comune di questi 4 tipi
di pattern è la presenza di 2 elementi su 4 appartenenti alla banda del
giallo-verde, ossia quella a cui, abbiamo visto che l’occhio è più
sensibile.
Quest’ultimo, invece, ai tre classici
colori RGB affianca il bianco. Anche questo filtro è stato
ideata da Kodak. L’idea è quella
di utilizzare un fotodiodo
di tipo pancromatico (sensibile a tutte le lunghezze d’onda) in grado,
quindi, di raccogliere una notevole (rapportata agli altri) quantità di
luce.
Difficile
valutare l’efficacia di questa soluzione, adottata, al momento, solo su
alcuni modelli di fotocamera di fascia bassa e limitatamente
ai sensori di tipo CCD. Anche per Kodak vale quanto ho detto per Sony: nei
sensori di fascia alta che produceva e vendeva (ad Hasselblad
e non solo), ha continuato ad usare CCD abbinati a pattern di tipo RGB
classico.
Altre cose da conoscere
Un altro parametro, che tiene conto di
altri fattori oltre al materiale (spessore dei materiali fotosensibili,
frequenza di taglio del sensore, tensioni di alimentazione, accoppiamenti
ottici), è l’efficienza di rivelazione (DQE), il rapporto
tra fotoelettroni prodotti e fotoni incidenti.
Nel calcolare l’efficienza quantica,
infatti, diventa difficile scorporare il contributo dovuto ad elementi
come il rumore che certamente non aiutano nel valutare la qualità del
materiale fotosensibile. Inoltre, a parità di tipologia di sensore, due
diverse tensioni di alimentazione generano differenti cifre di rumore.
L’efficienza di rivelazione, di
converso, tiene conto di tutto.
Esiste poi
un ulteriore parametro, il coefficiente
di assorbimento. Esso ci
dà la misura della capacità di uno strato di materiale
fotoassorbente di “catturare” la luce incidente.
Infatti, una parte della radiazione
luminosa incidente su materiale fotosensibile si perde subito, un’altra
restante penetra all’interno del materiale e continua ad avanzare, perdendo di intensità
nell’avanzare, fino a che non viene completamente assorbita o riesce ad
uscire dall’altro lato del materiale.
Ad ogni
lettura del sensore (vi risparmio le tecniche di lettura per righe, colonne,
a più canali…) si contano quanti elettroni sono stati collezionati da
ciascun fotodiodo e questo conteggio dà la misura dell’intensità luminosa
ricevuta. Ovviamente non tutti i contenitori sono di uguali dimensioni e, di
conseguenza, non tutti sono in grado di raccogliere la stessa quantità di
fotoni. La capacità massima di contenimento di ogni fotodiodo del sensore,
espressa in elettroni, si chiama Full
Well Capacity. I pixel di dimensioni maggiori avranno una full
well capacity superiore rispetto a quelli di dimensioni inferiori.

La full
well capacity influenza l’efficienza quantica di un sensore e il valore
della gamma dinamica ottenibile. Un pixel più grande, infatti, potrà
raccogliere, nello stesso intervallo
di tempo, un maggior quantitativo di fotoni rispetto ad uno di
dimensioni minori.
Il blooming
Il numero di
elettroni contenuto nei pixel di un sensore è limitato. Quando questo numero
massimo è superato, gli elettroni liberati fluiscono all’esterno del pixel e
invadono quelli adiacenti sulla stessa colonna, formando la nota strisciata
di luce che può invadere l’intera colonna. Il blooming può essere ridotto
con opportuni accorgimenti. Una full
well capacity più elevata permette di ridurre gli effetti del blooming che
si manifesta quando il “contenitore” dei fotoni è pieno e i fotoni in
eccesso vengono riversati sui pixel adiacenti, provocando alterazioni
dell’intensità del segnale rilevato. A questo tipo di effetto sono molto più
soggetti i sensori di tipo CCD, ormai non più usati nelle
moderne reflex digitali.
I sensori moderni presentano inoltre
delle barriere elettriche, insensibili alla luce, tra pixel contigui, per
limitare il blooming.
Conclusioni
Dopo questo viaggio nella tecnologia (e
nelle formule) di un moderno sensore direi che ne sappiamo di più. Con
queste informazioni siamo in grado di fotografare meglio? No, sicuramente
no. Però siamo in
grado di capire perché si può andare verso ISO sempre più elevati ed altre
migliorie che impattano sulla qualità dell’immagine finale. E noi siamo
sempre alla ricerca dell’immagine migliore possibile, no?
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©2015 Aristide Torrelli